A ispirare gli scienziati le grandi eruzioni vulcaniche che immettendo in atmosfera polvere, cenere e anidride solforosa schermano il Sole
Esiste un metodo poco costoso e ispirato alla natura per raffreddare i poli della Terra arrestando così il collasso dei ghiacci e con esso l’innalzamento dei mari. Ma potrebbe dar fiato ai complottisti delle scie chimiche.
Come i vulcani
La Terra si sta riscaldando troppo velocemente e l’Artico, in particolare, lo sta facendo a velocità quasi doppia rispetto alla media globale. Di questo passo, entro il 2050 se non prima, il ghiaccio marino artico estivo sarà scomparso con conseguenze potenzialmente catastrofiche per l’intero pianeta (Lo rileva anche uno studio italiano). Lo stesso accade anche in Antartide, sebbene in maniera meno pronunciata, facendo temere la fusione della calotta glaciale. Un evento che sarebbe un punto di svolta del cambiamento climatico. A questo punto è evidente che la semplice riduzione delle emissioni di gas climalteranti non è più sufficiente a invertire la tendenza: ci vorrebbe qualcosa che riuscisse a raffreddare la Terra. Ma come si raffredda un pianeta? Se lo sono chiesto alcuni ricercatori della Cornell University che hanno pubblicato i risultati del loro studio sulla rivista Environmental Research Communications.
A ispirarli è stata la natura stessa, in particolare le grandi eruzioni vulcaniche che immettono in atmosfera enormi quantità di polvere, cenere e spesso anidride solforosa (biossido di zolfo) che schermando il Sole riducono la temperatura in superficie. Polvere e cenere, però, hanno un effetto transitorio perché in breve tempo ricadono al suolo mentre l’anidride solforosa si accumula nella stratosfera (combinandosi con l’acqua a creare acido solforico) dove può rimanere fino a tre anni. In questo modo riflette molto più a lungo la radiazione solare, determinando un raffreddamento più duraturo. Gli scienziati si sono allora chiesti se non fosse possibile applicare lo stesso principio. Ed è qui che i complottisti delle scie chimiche potrebbero credere di trovare conferma alle loro assurde teorie. Ma, ovviamente, le cose stanno diversamente.
Cos'è la Stratospheric Aerosol Injection
Per simulare l’effetto termoriflettente delle eruzioni vulcaniche, i ricercatori, hanno pensato alla Stratospheric Aerosol Injection (Sai), una tecnica con la quale aerei che volano ad alta quota rilasciano nella stratosfera anidride solforosa sotto forma di aerosol. Finora la maggior parte delle ricerche e delle modellizzazioni Sai hanno considerato un uso di questa tecnica esteso a tutto il globo. Recentemente, però, sempre più scienziati pensano che basterebbe applicarla solo ai poli, cioè dove si stanno manifestando più intensamente gli effetti del riscaldamento. Secondo i ricercatori, per ottenere una riduzione di temperatura di 2 gradi nelle regioni polari, le immissioni di aerosol andrebbero fatte al 60esimo parallelo (circa la latitudine di Oslo, dell’Alaska o della Siberia) nell’emisfero settentrionale e all’altezza della punta meridionale della Patagonia nell’emisfero meridionale.
A queste latitudini sarebbe possibile operare in maniera meno dispendiosa perché gli aerei non sarebbero costretti a volare troppo in alto. Basterebbe una quota di 13 km e le particelle rilasciate andrebbero poi alla deriva verso i poli, concentrando là il loro effetto. Con questo sistema, per raggiungere l'obiettivo, bisognerebbe iniettare in atmosfera 6,7 miliardi di kg di anidride solforosa all’anno, per ciascun polo.
Attualmente non esistono aerei in grado di svolgere questo compito e quindi bisognerebbe ricorrere a un velivolo appositamente costruito (chiamato SAIL-43K), una versione modificata di un aereo precedentemente progettato per missioni SAI a quote più elevate. Con una flotta di 125 apparecchi del genere, ciascuno in grado di trasportare circa 76 tonnellate di carico per ogni missione e un totale di 1458 missioni al giorno, ogni giorno per quattro mesi a ciascuno dei poli, il risultato sarebbe concretamente raggiungibile.
Unidici miliardi di dollari all’anno
In termini di tempo e denaro sono stati calcolati circa 15 anni per approntare la flotta e la logistica a terra e 11 miliardi di dollari all’anno per l’operatività. Secondo gli autori dello studio, tuttavia, si tratta di un impegno notevolmente inferiore a quello richiesto da analoghi progetti però su scala globale o a quello necessario per attuare altre strategie di contrasto del cambiamento climatico quali la mitigazione, l’adattamento o la cattura della CO2.
Restano però i problemi legati agli effetti collaterali di questa tecnica, a cominciare dall’acido solforico che si formerebbe nell’atmosfera: a un certo punto si addenserebbe in goccioline sempre più grandi, ricadendo a terra come pioggia acida, con conseguenze negative per l’uomo e i vari ecosistemi. I composti di zolfo aggiunti alla stratosfera, inoltre, possono influire sulle concentrazioni di ozono e quindi rallentare o invertire il recupero del buco dell’ozono antartico. Inoltre, ci si aspetta anche un certo riscaldamento della stratosfera, mentre gli aerei stessi contribuirebbero alle emissioni di CO2, assieme a quelle dovute alla costruzione delle infrastrutture di terra e alle emissioni collegate alla produzione dell’anidride solforosa. È lecito chiedersi se il gioco valga la candela.
La decarbonizzazione prima di tutto
Per i ricercatori la cosa certa è che un programma del genere sarebbe fattibile mentre ciò che occorre è che il mondo decida quale sia il male minore: l’innalzamento dei mari o le conseguenze negative di questa tecnica su una parte stimata nell’1% della popolazione mondiale. In ogni caso, sottolineano, non bisogna dimenticare che l’immissione di aerosol stratosferici, per quanto promettenti, si limita solo a trattare un sintomo del cambiamento climatico ma non cura la malattia. In altri termini è come l’aspirina e non la penicillina: non può sostituire la decarbonizzazione.
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